Paura dell'Alba: La storia della Repubblica di Montefiorino in prima mondiale al Bif&st

Ce ne parla il regista e co-sceneggiatore Enrico Masi

27 marzo 2025

45 giorni. E’ il tempo che ha scandito la breve esistenza della Repubblica Partigiana di Montefiorino, che nell’estate del 1944 ha reso l’Appennino Tosco Emiliano cruento scenario di una guerra civile. Al centro il controverso episodio del gruppo del comandante modenese Nello Pini, colpevole di aver ucciso senza processo un gruppo di miliziani fascisti in diserzione e la staffetta partigiana che li stava accompagnando alle brigate sui monti. Questo atto costò a Pini la vita. Venne infatti fucilato a Montefiorino dagli stessi partigiani, insieme ad alcuni compagni della sua unità.
Attraverso questa drammatica vicenda Enrico Masi racconta la storia della Repubblica di Montefiorino in Paura dell’alba, documentario in prima mondiale al Bif&st di Bari nel concorso Per il cinema italiano. Scritto dallo stesso Masi con Pier Giorgio Ardeni, Paura dell’alba è prodotto da Stefano Migliore per Caucaso, con il sostegno della Regione Emilia-Romagna attraverso Emilia-Romagna Film Commission, della Regione Toscana e dei fondi dell’Unione Europea.
Nel cast Carlo TorelliSanto Marino, Innocenzo Capriuoli, Laura Pizzirani, Nina Grgic, con la partecipazione straordinaria della cantautrice Letizia Fuochi.
Numerosi gli Archivi coinvolti: l’Istituto Storico Parri di Bologna, La Fondazione Gramsci Emilia-Romagna, l’Istituto Storico Toscano della Resistenza di Firenze, l’Istoreco di Reggio Emilia, l’Archivio storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia, l’Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Parma.

Ne abbiamo parlato con Enrico Masi.

Paura dell’alba è un’opera che ci fa vedere il tuo lavoro da una nuova prospettiva. Lo consideri un film spartiacque per la tua cinematografia?
Grazie per questa considerazione. Di certo l’approccio alla finzione, il lavoro con un fantastico gruppo di attrici e attori eterogeneo, con una costruzione di “ambienti storici”, per quanto nel contesto naturale e quasi in assenza di scenografia, è un passo in una direzione nuova. Fin dall’inizio del nostro percorso di scrittura abbiamo pensato alla sceneggiatura e alla creazione pura nel cinema. La questione documentaria in questo periodo la stiamo considerando anche a livello teoretico, grazie alla scrittura di un manuale di cinema documentario con l’editore UTET, a cui sto lavorando da circa un anno.
È la prima volta che ci confrontiamo con un fatto storico di questa portata. La responsabilità della inevitabile trasposizione cinematografica ci ha fatto discutere a lungo. La Resistenza è uno spartiacque fondamentale per capire la storia italiana. Oltre alla Resistenza, c’è il racconto della Resistenza, che non deve essere considerato storiografia, ma invece parte integrante della Storia, fatto storico.

Quando hai sentito la necessità di voler filmare la tua versione sui fatti della Repubblica partigiana di Montefiorino? Quali piste hai seguito, quali fonti hai utilizzato per ricostruirne la breve ma pregnante esistenza?
Da molti anni ho la fortuna di condividere un tempo straordinario con mio nonno, Gino Bonfiglioli, classe 1926. Riusciamo a prendere un caffè la mattina, entrambi presi dal lavoro di scrittura, di disegno, di progettazione. Viviamo nella stessa casa, costruita dai miei bisnonni. Gli scambi che abbiamo avuto ci hanno portato spesso, direi quasi sempre, a parlare di Seconda guerra mondiale e più in generale di politica e storia, la storia del Novecento che lui ha vissuto in prima persona. I testi di Guido Battaglia ed Ermanno Gorrieri si sono affiancati a Claudio Pavone, Una Guerra Civile, consigliatomi da Pier Giorgio Ardeni, ma anche Semprun, Malraux, sono state le ispirazioni che hanno dato vita alla trilogia repubblicana. La trilogia è una progettualità vasta, di cui mi sto occupando da diversi anni e che sarà un grande affresco. Come primo episodio, potrei dire come sperimentazione, abbiamo scelto La Repubblica di Montefiorino, come momento capace di parlare della natura umana, avvenuto nel cuore del nostro appennino. Abbiamo pensato di dedicare una parte della nostra energia a questo tema, e finalmente, è arrivato il tempo di vivere la Resistenza attraverso il cinema.

Come spesso riscontriamo nelle tue opere la natura è scenario e testimone attivo della narrazione. Anche qui si fonde con la storia, a volte fagocita proprio le persone, acqua e terra scandiscono il ritmo del racconto e rendono superflue le parole. Quanto è importante per te il silenzio?
Ogni volta che “trovo il tempo”, salgo in Appennino. È un territorio sacro, vorrei dire pagano, in cui esistono ancora momenti non pienamente “romanizzati”. Con romanizzato intendo la modernità. I liguri del frignano, così come altre popolazioni etrusche di certo mischiate nel crogiuolo dei secoli, in alcuni brevi frangenti, sembrano ancora esistere, sembrano apparire. Forse anche io sono uno di loro. Il silenzio fa parte dell’esperienza della natura, senza mai confonderlo con la necessità o la volontà di rilassarsi, tipicamente urbana. Il silenzio è personale. Nella natura il silenzio non esiste. L’appennino ha un suono costante e comunica un codice, un messaggio.

Il docufilm, lo hai appena confermato, è figlio della montagna. Dove avete girato? Le riprese sono state impegnative?
Le ambientazioni sono il frutto di una lunga esperienza e di una infinita serie di pellegrinaggi. Il parco dell’Abbazia di Monteveglio è un luogo della mia infanzia. La Croce Arcana è un vero spartiacque tra Toscana ed Emilia. La Rocca di Montefiorino è al centro della storia. Il giorno in cui siamo saliti la nebbia era forte. Abbiamo ripreso il bianco dei vapori. Le riprese sono un momento glorioso del cinema, la fatica si trasforma, o quantomeno, può trasformarsi. Il nostro è un lavoro fatto di eccezioni continue, si cerca di stare insieme con empatia, tutte le volte che è possibile. Il cinema è uno “stato di eccezione” permanente.

Stai vivendo un periodo particolarmente prolifico. Il tuo precedente documentario, Terra incognita, sta ancora incontrando la sala cinematografica e, dopo pochi mesi, sei al Bif&st con Paura dell’Alba. Sono storie che hanno avuto un percorso parallelo di gestazione?
Terra Incognita
per noi è stato il raggiungimento di un paradigma produttivo e creativo. Paura dell’alba, scusate la ripetizione, è l’alba di un percorso diverso. Caucaso è un piccolo mondo, una squadra di persone che collaborano, scrivono, realizzano. Il confronto ci porta a creare progetti filmici, e questi devono sempre avere almeno un doppio obiettivo, sociale e autoriale. Temi e argomenti diversi trovano allacci a volte impensabili, in questi “contatti” tra le diversità si può creare un dialogo. Il dialogo è alla base della narrazione. Nucleare e partigiani. Ambientalismo e Resistenza.

Caucaso parte da Bologna per aprire le porte di mondi, anche lontani. Raccontaci la vostra realtà.
Caucaso ha compiuto 20 anni nel 2024. È un collettivo e una cooperativa, un gruppo di persone che collaborano, in tante città. Mentre esce Terra Incognita per la prima volta sulla televisione ARTE, noi ci concentriamo sull’Italia. Questo Paese è un grande laboratorio politico e creativo, un caos continuo di incontri, un ambiente di grande confusione perfetta per la creazione. Questa confusione a mio avviso deriva dai vulcani, dai terremoti, dalla estrema varietà di culture e di esposizione ai venti. Caucaso è una metafora di condivisione. Ci siamo ispirati alla factory warholiana, e alla figura di Mekas, ai Velvet Underground. Quando è possibile con Stefano (Stefano Migliore n.d.r.), continuiamo a suonare e comporre la nostra musica.

Hai una storia che sogni di raccontare o una sfida narrativa che pensi di affrontare ma non hai ancora osato farlo?
Raccontare La guerra civile spagnola, come terribile preambolo della Seconda Guerra Mondiale. Gli effetti che ha scatenato, l’ambigua presenza italiana. Stiamo lavorando su questo con Stefano Migliore e Pier Giorgio Ardeni. Ancora oltre, c’è un sogno più antico: scrivere e realizzare il nostro omaggio al cinema italiano, la nostra “Armata Brancaleone”.

 

ph: Stefania Muresu e Roberto Ceré