Dear Audience: l'arte quotidiana nel conflitto con Enrico Baraldi

Il co-fondatore del gruppo Kepler-452 alla regia con un racconto particolare della vita durante il conflitto russo - ucraino. Il film in anteprima al Biografilm il 13 giugno. L'intervista

13 giugno 2025

Yulia e Natalia, due giovani attrici ucraine  vivono come rifugiate a Bologna fin dai primi mesi dell’inizio del conflitto russo – ucraino. Quando arriva la notizia della riapertura dei teatri nel loro Paese e di un’audizione per uno spettacolo, le due ragazze tornano a casa, confrontandosi con la realtà della guerra, con le ragioni di chi ha deciso di restare, interrogandosi sulla funzione e sul senso del teatro e dell’arte in uno scenario di distruzione e morte quotidiana.
Enrico Baraldi fondatore (assieme a Nicola Borghesi e Paola Aiello) della compagnia teatrale Kepler-452 firma la regia di Dear Audience, documentario che ha anche co-sceneggiato con le due protagoniste.
Dear Audience, una produzione Dis Film,  realizzata con il sostegno della Regione Emilia-Romagna attraverso Emilia-Romagna Film Commission e il supporto di Maxman Coop, sarà presentato in anteprima assoluta il 13 giugno alle ore 19.00 al Pop Up Cinema Arlecchino di Bologna, nella sezione  Biografilm Art & Music del 21esimo Biografilm Festival di Bologna.

Ecco che cosa ci ha raccontato Enrico Baraldi.

Dear Audience è il tuo primo documentario, e hai scelto una realtà che conosci molto bene – quella artistica e teatrale – per raccontare la vita di chi vive dentro a una guerra. Ripercorri con noi i passi che ti hanno portato a Yulia e Natalia, le tue protagoniste, e a questo viaggio di grandissima attualità tra Bologna e Kyiv?

Ho incontrato Yulia e Natalia insieme a un gruppo di quaranta ragazzi e ragazze, tutti attori e attrici che lavoravano in due importanti teatri di Kyiv. Erano scappati nelle prime settimane del conflitto tra Russia e Ucraina ed erano arrivati in Italia, pensando di rimanere poche settimane. Ho iniziato a frequentare il loro gruppo, mi avevano chiesto di fare dei laboratori di teatro. Il tempo passava e l’orizzonte della pace sembrava si facesse via via più lontano e cupo. Nel 2022 ho invitato Yulia e Natalia a prendere parte a un mio spettacolo, che si intitola Non Tre Sorelle, uno spettacolo in cui raccontano, insieme a due attrici Italiane, il loro rapporto col teatro e il loro viaggio che le ha portate in Italia, riflettono su cosa significa fare teatro oggi per loro, anche in relazione al rapporto con la cultura Russa, che è diventata la cultura dell’aggressore (da questo il titolo “Non” Tre Sorelle, che richiama il capolavoro dell’autore russo A. Cechov). Proprio durante le prove sono state Yulia e Natalia a raccontarmi che i teatri, rimasti chiusi dall’inizio del conflitto, stavano riaprendo, e che i loro colleghi rimasti in Ucraina stavano ricominciando le prove. Molti dei loro amici avevano deciso così di tornare a casa.
Sono rimasto colpito dall’immagine dei teatri aperti durante una guerra, mi è parsa una situazione carica di elementi simbolici, una prospettiva particolare per capire come la vita continua a scorrere e a riadattarsi in ogni situazione, anche quelle più drammatiche. In fondo che cosa c’è di più umano che la necessità di continuare, a qualunque costo, a raccontare storie? E non è forse il teatro quel luogo che, trasversalmente a in qualunque epoca, è sopravvissuto come strumento per continuare a raccontare?
Come regista di teatro ho sentito che, attraverso la storia di alcuni giovani artisti Ucraini e dei loro teatri, si apriva la possibilità di raccontare qualcosa di inedito del conflitto. Ho sentito l’urgenza di raccontare a mia volta questa storia.

Le arti, la cultura spesso hanno un ruolo di denuncia e di sensibilizzazione molto forte e per questo “spaventano” la guerra e chi la vuole. Hai trovato difficoltà nella realizzazione di Dear Audience?

 Apparentemente la vicenda della guerra in Ucraina si presenta come un tema urgente e forte, ma ho notato quanta diffidenza ci sia nel capire un progetto che vuole entrare nel vivo delle vicende umane di chi quella guerra la soffre. Forse è la paura che sia un argomento divisivo, forse l’idea che sia un oggetto “pesante” o triste e che oggi invece si debbano ricercare piuttosto narrazioni confortanti, positive. Non ho mai capito perchè la guerra in Ucraina possa essere un tema divisivo (potrebbe esserlo il tema dell’invio di armi, o lo schieramento di soldati, ma non di certo la solidarietà a un popolo oppresso), anche considerando che noi non lo affrontiamo da un punto di vista politico o geopolitico, ma soprattutto umano.

 Il film inevitabilmente ha seguito gli eventi del conflitto per trovare realizzazione. Possiamo dire che, attraverso il cinema, hai approfondito da una prospettiva differente il percorso e il lavoro di ricerca oltre le mura, gli spazi fisici del teatro, che connota la missione artistica e sociale di Kepler-452? 

 In qualche modo questo film è complementare allo spettacolo che abbiamo realizzato insieme a Yulia e Natalia, nel senso che completa una parte di storia che riguarda il rapporto che abbiamo creato tra di noi, un rapporto tra comunità teatrali che si incontrano per motivi assurdi e inimmaginabili. Se lo spettacolo Non Tre Sorelle raccontava il loro viaggio di andata, quello che hanno compiuto le protagoniste per arrivare in Italia, Dear Audience racconta un viaggio di ritorno, il loro ritorno verso casa e verso quella comunità di artisti e artiste del teatro da cui si sono separate. La ricerca teatrale di Kepler-452 si è sempre configurata come un viaggio, un’esplorazione fisica e umana di territori “ai margini” (una fabbrica occupata ne “Il Capitale”, il mediterraneo centrale in “A Place of Safety”), luoghi in cui l’uomo è spinto verso una condizione per certi versi estrema della sua esistenza, così anche la guerra mi appare un luogo e una circostanza in cui si estremizza il senso di umanità delle persone, in cui l’essere umano, di fronte a una condizione estrema, si interroga su se stesso con una profondità e con delle possibilità che altrimenti è difficile raggiungere.

 Com’è stata questa tua esperienza alla regia dietro a una cinepresa?

Bellissima e spaventosa allo stesso tempo. Quando abbiamo cominciato il film, devo ammetterlo, non sapevo praticamente niente. Ero terrorizzato, molto più della telecamera che della guerra. Ho avuto la fortuna di incontrare dei collaboratori che mi hanno aiutato, che mi hanno fatto sentire un po’ meno alieno a questo mondo, che mi hanno incoraggiato a sperimentare con un linguaggio che non è il mio e che hanno permesso che questo nuovo strumento, la cinepresa, diventasse man mano una alleata e non una nemica. E poi ci siamo divertiti moltissimo, più è alta la tensione (e su un set lo è infinitamente più che in teatro) più poi quando la tensione si allenta ti rendi conto di avere appena vissuto una esperienza incredibile. Per me è stata anche una esperienza formativa, nei mesi in cui abbiamo lavorato al film penso di avere imparato una quantità di cose che nemmeno immaginavo di dover imparare quando abbiamo cominciato.

 Da artista come sono cambiati, invece (se sono cambiati), la tua prospettiva e il tuo sguardo, rapportandoti con colleghe e colleghi che operano in una realtà così difficile e, forse, inimmaginabile per chi non ne sia direttamente coinvolto?

Quando ho saputo che i teatri riaprivano in Ucraina mi sono stupito della mia impreparazione, non avevo minimamente immaginato che durante una guerra (ed eravamo ancora all’inizio, dopo pochi mesi dall’invasione) qualcuno avrebbe sentito la necessità di salire su un palcoscenico per raccontare storie. Quando sono stato la prima volta in Ucraina, nell’inverno 2022, i teatri dovevano confrontarsi con la mancanza di energia elettrica per i continui bombardamenti sulle infrastrutture energetiche – gli spettacoli a volte si facevano con le candele o chiedendo agli spettatori di accendere le luci dei telefoni per illuminare il palco. Inoltre molte attrici, come Yulia e Natalia, erano fuggite all’estero mentre alcuni attori e attrici prestavano servizio al fronte, creando quindi grandi vuoti nelle compagnie che dovevano organizzarsi per sostituire chi mancava. Ho conosciuto degli attori che sono nell’esercito, combattono al fronte, e ogni tanto hanno qualche giorno di congedo; durante quei giorni tornavano a teatro come spettatori, oppure, in alcuni casi, chiedevano di tornare a recitare il loro ruolo che nel frattempo era stato attribuito a qualcun altro. Quando, durante uno spettacolo, suonano le sirene per un attacco (succede quotidianamente anche ora), gli attori interrompono lo spettacolo e il pubblico deve recarsi nel rifugio più vicino. Aspettano finché l’allarme non è finito e poi tornano in sala e gli attori ricomionciano a recitare da dove si erano interrotti. Tutto questo, a mio avviso, testimonia l’insopprimibile necessità dell’uomo di raccontare, di fare arte, ed è qualcosa che mi ha riportato a una dimensione di necessità che raramente avevo messo così tanto a fuoco.

Il film ha ricevuto il sostegno della Regione Emilia-Romagna e di Emilia-Romagna Film Commission ed è in prima assoluta al Biografilm di Bologna. Dopo questo esordio importante come vi muoverete?

È stata una impresa davvero complessa da portare a compimento, e grazie al supporto di Emilia-Romagna Film Commission e alla fiducia dei direttori di Biografilm ora si chiude una prima parte di percorso, quello produttivo, ma se ne apre uno altrettanto importante. Intanto per noi è importante partire da qui, da Biografilm per far viaggiare questo film in diverse sale, organizzando eventi mirati in contesti di senso dove presentare questo lavoro. Ci piacerebbe farlo arrivare anche all’estero proprio per la natura così internazionale di questo film. Per il momento comunque, essendo la mia prima regia, mi sento estremamente fortunato per il contesto in cui questo film può incontrare per la prima volta il pubblico in sala.